Home > Storico > Felice Trojani> La Coda di Minosse > Estratto

Felice Trojani

La Coda di Minosse

Un estratto : l'arrivo dell'Italia al Polo Nord 



La giornata era magnifica, il sole splendeva, e andare dopo tante ore di clausura sopra quella neve candida, soffice e cristallina, costituiva una vera gioia.
Non ero stanco. Mi sentivo l'animo esilarato dal felice coronamento del volo e dal bel tempo, e sarei stato disposto a ripartire immediatamente. Ma provavo ancora meno fame che stanchezza: raggiunsi perciò la casa del dott. Ingles, mi gettai sul letto, e mi addormentai.
Quando mi svegliai l'appetito si fece sentire, e mi diressi verso la Città di Milano, perché, come mi era stato facile prevedere, i miei amici non avevano resistito più a lungo alla mensa della miniera e l'avevano abbandonata per quella della nave.
La Città di Milano era venuta avanti e si era attraccata al pontile. Durante il nostro volo i minatori, facendo brillare numerose mine, l'avevano liberata dai ghiacci che ne impedivano l'avanzata.
Sul pontile, accanto alla fila di mezze renne verdastre appese all'aria aperta che costituivano la maggiore riserva alimentare della miniera, trovai un gruppo di norvegesi e fra questi uno studente di ingegneria che stava facendo tre anni di minatore per pagarsi gli studi, e che a tempo perso era anche giornalista.
Il minatore studente giornalista mi fermò e volle conoscere le mie impressioni sul volo.
Nelle sue domande intravidi una punta di malignità, capii che egli riteneva che i risultati del volo dal punto di vista polare e geografico erano stati nulli. Gli risposi che io non mi interessavo né della parte geografica né della parte scientifica della Spedizione; era di mia competenza solo la parte aeronautica, e dal punto di vista aeronautico un volo simile, compiuto da un piccolo dirigibile di soli 18.500 metri cubi, costituiva un grande successo, anzi addirittura un record.
Cosi gli chiusi la bocca. Ma era logico ritenere che la sua opinione fosse condivisa da altri, e questa idea mi rimase sullo stomaco, perché se era vero che lo scoprire una nuova terra non ci sarebbe costato più fatica di quanto ci era costato il non scoprire nulla, era anche vero che fra lo scoprire e il non scoprire ci corre una bella differenza.
[...]
 

©Ascanio Trojani 2009
L'ITALIA al pilone di Kingsbay nel Maggio 1928


Più ricamavo nella mia mente sull'intervista col minatore studente giornalista, più mi persuadevo che la nostra attività era impostata male.
Non ero un fanatico delle osservazioni e misure di fisica terrestre eseguite a bordo, non avevo un'idea della loro attendibilità, e francamente non sapevo se valessero tanto da giustificare il rischio rappresentato dai voli. Ancorarsi e discendere sui ghiacci del Polo avrebbe costituito un fatto addirittura storico; le osservazioni di magnetismo e di elettricità, la misura della profondità dell'Oceano Polare, eseguite dalla sua superficie avrebbero avuto un valore innegabile: ma io non credevo alla discesa sui ghiacci.
Ci era stato possibile ancorare il dirigibile sul mare, ma il mare al momento della prova era eccezionalmente tranquillo, e l'ammarraggio dei dirigibili non era una novità, era un problema risolto ormai da anni. Costituiva forse una novità il discendere dal dirigibile ancorato, ma se era stato facile calarmi in mare, il riprendermi a bordo era stato laborioso, e per ripartire avevamo dovuto abbandonare il sacco d'ammarraggio: la manovra non poteva dirsi perciò perfettamente riuscita.
Ancorarsi e discendere sui ghiacci sarebbe stato assai più difficile.
Probabilmente vi saremmo riusciti se avessimo affrontato il problema seriamente, e se ci fossimo allenati con numerose prove. Ma tentare l'ancoraggio al Polo Nord, con 1200 chilometri di pack fra noi e la base, con la sola pratica che ci derivava dall'unica esperienza compiuta al largo di Civitavecchia, sarebbe stata una leggerezza e una follia, e il risultato sarebbe stato quasi certamente tragico.

Ciò che poteva secondo me giustificare la spesa, la fatica, e il rischio della Spedizione, erano la ricerca geografica e la documentazione fotografica e cinematografica dei voli. E se la prima era affidata per molto alla fortuna, la seconda dipendeva da noi e purtroppo, benché disponessimo di un'ottima attrezzatura, fra i membri dell'equipaggio non vi era nessuno che fosse fotografo se non buono almeno passabile. Fatto oltremodo deplorevole perché una bella serie di fotografie e un film della zona inesplorata sarebbero stati di un grande interesse scientifico e di un notevole valore commerciale, interesse e valore che sarebbero aumentati immensamente se avessimo avuta la fortuna di scoprire nuove terre.
Fra il personale venuto da Roma vi era Gasperoni, il miglior fotografo dello stabilimento; e a me sembrava cosa oltremodo logica e semplice che si imbarcasse sul dirigibile: ogni problema fotografico sarebbe stato,cosi, felicemente e semplicemente risolto.
Ne parlai con Nobile il quale approvò le mie idee e condivise la mia opinione, ma non so se parlò a Gasperoni. A Gasperoni gli parlai io, ma lui non gradì la mia proposta. Non mi rispose che a bordo del dirigibile non ci sarebbe venuto nemmeno legato, ma me lo fece capire; e da quel momento cominciò a sfuggirmi e a girarmi alla larga, e quando mi vedeva da lontano cambiava strada o si nascondeva.
Il giorno stesso del ritorno dal volo alla ricerca della Terra del Nord era stata iniziata la revisione del dirigibile e la preparazione per il volo successivo; una mattina, recandomi in hangar per il mio lavoro consueto, trovai sulla porta Mariano e Zappi seduti a godersi il sole.
Zappi mi chiamò, e dopo un lungo preambolo mi disse che Nobile si caricava di troppe responsabilità, che nell'ultimo volo si era mostrato molto stanco, che per alleggerirgli la fatica era necessario che fosse nominato un comandante in seconda, e che il comandante in seconda doveva essere Mariano. Mariano ascoltava e taceva.
Mentre Zappi parlava io ridevo perché quel discorso non mi coglieva di sorpresa: me l'aspettavo. Una cosa sola non riuscivo a capire e sarei stato curioso di saperla: si trattava di un'ambizione personale di Mariano, o la proposta veniva più dall'alto? Non era forse la R. Marina, che in previsione del nostro successo, sul quale in quel momento pareva che non vi fossero dubbi, voleva attribuirsene una parte maggiore?
Ambedue le ipotesi erano attendibili; ma che Mariano ci tenesse molto a quella investitura, e che ci tenesse per ovvie ragioni di carriera, era evidente. Ci teneva tanto che si era, in un certo senso, autonominato comandante in seconda; fatto al quale noi eravamo completamente indifferenti, tranne forse Cecloni che non digeriva che due maggiori "come lui" gli venissero anteposti, e che certamente pensava che se un comandante in seconda ci fosse dovuto essere, comandante in seconda avrebbe dovuto esserlo lui.
Ma un comandante in seconda sarebbe stato effettivamente necessario? Eravamo quattro gatti che operavamo a contatto di gomiti; un intermediario fra noi e Nobile, sarebbe stato utile? Avrebbe effettivamente funzionato? Non c'è dubbio che Nobile avrebbe continuato ad assumersi le stesse responsabilità e a caricarsi delle stesse fatiche.
Il non aver stabilita una rigida scala gerarchica fra i membri dell'equipaggio era forse deprecabile in teoria, ma in pratica non dava inconvenienti: tutti dipendevamo dal Capo e sapevamo quali erano le nostre mansioni. I rapporti fra di noi erano regolati dalla logica e dall'educazione e lavoravamo nella più perfetta armonia.
Unica eccezione, come ho detto, Cecioni; che però si limitava a brontolare e a lanciar frecciate: la sua attività non ne soffriva.
In ogni caso, quella di Mariano sarebbe stata una buona scelta? Non lo credo.
Come ufficiale di rotta mi pareva che ne sapesse meno di Zappi, e di esperienza artica zero, conoscenza tecnica dell'aeronave doppio zero.
Come si sarebbe comportato in un caso di emergenza? Senza dubbio aveva molto tatto, era molto gentile, e si vedeva che era abituato ai modi di una corte ducale, ma tali qualità lo rendevano più appropriato a un impiego da diplomatico (al quale del resto era destinato) che a una spedizione polare.
Se un comandante in seconda ci fosse dovuto essere, si sarebbe dovuto sceglierlo o fra esperti e autentici piloti di dirigibili, o fra esperti e autentici esploratori polari.
Sceglierlo solo in base al grado, all'anzianità di nomina, all'ordine di pubblicazione del nome nel bollettino, sarebbe stato applicare alla nostra Spedizione il criterio più meccanico e cretino che vige nella pratica militare.
La quale nostra Spedizione non aveva nulla di militare, come nulla di militare aveva Nobile malgrado la tenacia che dimostrava nell'indossare costantemente la dorata uniforme.
Se avesse avuta nel sangue una benché minima stilla di esperienza e di mentalità militari, il giorno dell'arrivo a Kingsbay avrebbe fatto vedere a Romagna se l'orario della mensa era veramente sacro: lo avrebbe messo agli arresti, e gli avrebbe ricordato quante pagine del Codice di Disciplina ci stanno fra un tenente colonnello e un generale.
Era per tali motivi che, mentre Zappi parlava, io guardavo i due e ridevo.
Siccome qualche cosa dovevo pur rispondere, dissi a Zappi che ero lusingato che lui pensasse che io potessi avere tanta influenza su Nobile; ma che nel caso specifico si trattava di un provvedimento molto importante, troppo al difuori della mia competenza, perché Nobile potesse dar peso a una mia opinione.

Il prossimo volo doveva essere quello del Polo Nord, andata e ritorno, e non gli si dava nessuna importanza.

Si sarebbe trattato, al massimo, di una quarantina di ore di volo, le quali, dopo le sessantanove del volo precedente sembravano uno scherzo.
Nella mente di tutti il volo al Polo era un volo di propaganda, e il suo principale scopo pareva che dovesse essere quello di lanciare bandiere gagliardetti e simboli, e di trasmettere messaggi.
Vi era in programma, è vero, la famosa discesa; ma io non ci credevo.
E nessuno lo diceva, ma sono convinto che la mia opinione era condivisa da altri.
Ma, volo di propaganda o no, la mia solita paura di volare, retrospettiva e anticipata, era nata e col passare dei giorni cresceva. Non era la solita pauretta che mi veniva dopo e alla vigilia di ogni volo: questa volta era paura sul serio, e la paura andava pigliando la forza di una ossessione.

II dirigibile era pronto.
Cominciò l'attesa di condizioni meteorologiche favorevoli, e verso mezzogiorno del 22 Maggio, secondo le informazioni dell'Osservatorio Meteorologico di Tromso, parve che queste si verificassero. Nobile ci diede ordine di trovarci alle 23:00 in hangar, pronti al volo.
Aspettando che venisse l'ora mi buttai sul letto cercando di dormire, ma il tempo passava e il sonno non veniva: non veniva perché la fifa non se ne era andata, anzi, col trascorrere delle ore, cresceva. Le altre volte all'indossare gli abiti di volo era scomparsa, volli provare se anche questa volta un rimedio tanto semplice servisse, e cominciai a vestirmi lentamente e accuratamente.
Indossai la combinazione di lana, la camicia di flanella verdastra,e annodai la smagliante cravatta blu e rossa che avevo portata in tutti i voli e che era diventata un po' la mia bandiera. Mi misi il golf di pelo di camello lavorato da Marta intessendovi suoi capelli, infilai i piedi nelle calze di pelo di camello e su queste misi le lunghe calze di lana bianca, alte fino a metà coscia. Indossai l'abito sportivo di lana pesante, il maglione finlandese,e poi la tuta in due pezzi, di tela a vento foderata di pelliccia d'agnello. Misi ai piedi i calzerotti di pelliccia di gatto, e su di essi calzai le scarpe da sci. Infilai in testa il passamontagne di maglia di lana, presi i finsko da usare a bordo e il sacco con la biancheria di ricambio e con altri effetti personali, e mi diressi verso l'hangar.
Era ancora presto e l'hangar era semideserto.
La paura non mi passò; anzi alla vista della mole immobile del dirigibile crebbe tanto che decisi di non partire, e ripresi la via di Ny Aalesund.
Rientrai profondamente avvilito nella mia stanza, mi sedetti sul letto e meditai.
Ricordavo con paura il volo passato, pensavo con paura ancora maggiore al volo imminente. Ma ero combattuto da due sentimenti opposti: avevo paura di volare e non mi sentivo il coraggio di rinunciare al volo; sentivo che non potevo mancare alla parola data.
Mi vennero in mente i versi coi quali Cesare Pascarella verbera i pusillanimi compagni di Colombo che non vogliono più andare avanti:

Perché quann'uno, caro mio, se vanta
d'esse un omo d'onore, quanno ha data
la parola, dev'esse sacrosanta.
E sia longa la strada, o brutta, o bella,
magara Cristo ha da morì ammazzato,
ma la parola sua dev'esse quella.

E parrà incredibile, ma quei versi diedero il colpo di grazia alla mia titubanza :

- Mbe' ! -dissi a me stesso
- Andiamo ! -
E ripresi la strada dell'hangar.
L'hangar adesso era affollato, e si provavano i motori. I motori rombavano, le eliche turbinavano, le pareti di tela dell'hangar fremevano. La mia paura non aveva mai resistito al rombo dei motori e al turbinio delle eliche, e anche questa volta finì di colpo e scomparve per dar posto alla passione del volo.
Alle 2:50 procedemmo al rifornimento di gas.
Quando l'afflusso del gas cessò, ci parve di sentire il rumore frusciante di una perdita. Esaminato l'involucro scoprimmo un foro sulla groppa, a sinistra, verso poppa, a due terzi della lunghezza.
Il sarto Bellocchi riparò il danno, e montai sulla groppa anche io per controllare che la riparazione fosse (come fu) eseguita a regola d'arte, e per verificare che non vi fossero altre perdite.
Nell'hangar fu fatto silenzio assoluto, e venne portata la pressione del gas al massimo possibile: tutto apparve in ordine.
Fu eseguita la pesata, e i risultati furono buoni; tanto buoni che Viglieri che era sceso per fare posto a Behounek risalì a bordo.
Il dirigibile fu condotto fuori. Il cielo era sereno, la temperatura non eccessivamente bassa.
Alle 4:28 del 25 Maggio ci staccammo da terra fra gli alala e gli evviva dei presenti, facemmo forza coi motori, e cominciammo a salire, come sempre, in falsa quota; ma non eravamo ancora a cento metri che la salita rallentò, poi si trasformò in discesa. Gettate alcune latte di benzina, il dirigibile si equilibrò, la salita riprese, e raggiungemmo la quota di navigazione.
Eravamo a bordo Nobile, Malmgren, Behounek, Pontremoli, Lago, Mariano, Zappi e Viglieri; Cecioni, Arduino, Caratti, Pomella e Ciocca; Alessandrini, Biagi, Titina e io. Portavamo 7000 kg. di benzina della quale 225 kg in latte per servire da zavorra (cinque latte furono lanciate fuori bordo alla partenza), e 465 kg di olio. Portavamo l'attrezzatura polare e scientifica e i viveri come nel volo precedente; alle armi si era aggiunto un Manlicher a cannocchiale di proprietà di Sora. Avevamo a bordo l'attrezzatura per effettuare il programmato ancoraggio e discesa sui ghiacci o sull'acqua.
Lasciamo a destra Capo Mitra e procediamo alla media di 82 km all'ora verso l'isola Amsterdam che sorpassiamo alle 5:41.
Dirigiamo la prua a Nord, ma il vento contrario riduce la nostra velocità.
Alle 6:40 cambiamo rotta puntando su Capo Bridgman, sulla costa Nord della Groenlandia, e alle 6:50 passaimo il limite del mare libero e ci inoltriamo sulla sterminata pianura di ghiaccio. Sotto di noi è la nebbia, e su di essa corre l'ombra del dirigibile contornata da un alone madreperlaceo; sotto la nebbia è il pack.
Navighiamo sulla nebbia per sei ore a 200 metri di quota. Poi la nebbia finalmente si dirada e avvistiamo la costa: montagne scoscese coperte di giaccio.
Viglieri scatta numerose fotografie.
La velocità è di 62 km all'ora, la deriva è assai forte. Il pack appare spezzato da canali.
Identificato Capo Bridgman . puntiamo sul Polo Nord. Il cielo si rischiara.
Procediamo con navigazione normale a due motori e con forte vento di poppa, inoltrandoci in zona inesplorata. La visibilità è ottima.

Alle 22 del 25 Maggio appare all'orizzonte un banco di nuvole che pare voglia tagliarci la strada. È compatto come un muraglione, e sopra di esso splende il cielo sereno; sembra che raggiunga l'altezza di un migliaio di metri.
Alle 22:50 siamo a 88° 10' di latitudine Nord. La nebbia ci investe; non possiamo perdere di vista il Sole e saliamo a 800 metri di quota. Abbiamo percorso, da Capo Bridgman: , 706 km in 6 ore e 51 ', alla velocità media di 105 km. all'ora.
Gli ufficiali di Marina sono intenti senza soste a osservare la rotta e a fare il punto. Alle 0: 20 Mariano annunzia:
- Ci siamo. 
Scendemmo a spirale fino a 150 metri di quota.
Il cielo era coperto e il pack appariva abbastanza liscio, quasi compatto, con qualche canale che lo tagliava; era offuscato da una nebbia legs gera. Era la solita sinfonia di bianco, grigio azzurro, nero. Era tutto li,  non aveva niente che lo distinguesse dalle altre zone dell'Oceano Polare.

Ma era il Polo Nord.

Mentre osservavo quel deserto monotono e impersonale, una forte commozzione mi stringeva la gola. Pensavo ai secoli di sforzi, di rischi, di sogni, di illusioni, alle migliaia di vittime che quei sogni e quelle illusioni erano costati, a tutto l'ardore umano che il nostro volo coronava semplicemente.
In 19 ore e 52 minuti avevamo, da Ny Aalesund, raggiunto il Polo Nord con un volo banale, senza difficoltà, quasi senza fatica.
Era il Polo Nord quello che appariva ai miei occhi nella sua assoluta nudità, nella sua semplicità deludente, nella sua quasi inesistenza. E comprendevo bene il sentimento di Peary, che raggiungendolo si domandava:
- È tutto qui ?  È questo il risultato di venti anni di tentativi e di sofferenze?

Mentre guardavo, vedevo e pensavo, il fonografo portato da Nobile a bordo quasi clandestinamente, intonò Giovinezza e poi la Canzone del Piave.
Quello sfoggio di patriottismo canoro e guerriero mi riuscì inaspettato, e devo aver fatta una faccia meravigliata, perché Nobile mi domandò:
- Non sa che giorno è oggi? -
- No.
- È il 24 Maggio.
E allora pensai al 24 Maggio; ma non al giorno dell'entrata in guerra.
Pensai al 24 Maggio 1908, al primo volo di Delagrange a Roma: erano passati esattamente venti anni. E feci il bilancio della mia vita, della mia passione aeronautica.

Non avevo avuto ciò che avevo sognato, la mia vita era stata una serie quasi ininterrotta di delusioni e di insuccessi. Sentivo ancora in bocca l'amaro che avevo provato quando ero stato respinto dal corso di mitragliere e poi allontanato dal Battaglione Aviatori, non era ancora rimarginata la ferita dell'esclusione dal genio aeronautico. Ma ero ingegnere e facevo parte dell'equipaggio di una aeronave che stava compiendo dei voli fuori del comune, e avevo collaborato alla progettazione e alla costruzione del dirigibile e alla preparazione dei voli.
Non mi consideravo un eroe, ma provavo l'orgoglio di trovarmi in prima linea, ero contento di aver resistito alla tentazione di mollare, ero contento di aver condivisi coi miei compagni tutti i rischi della Spedizione, e di non essermi fatto indietro pur conoscendo chiaramente le deficienze della macchina e i pericoli dell'impresa.

- Lo vede, -continuò Nobile - che si va due volte contro il destino? Volendo ci si va anche tre volte.
Si riferiva alla frase usata da Mussolini nello sconsigliare la Spedizione, ma quelle parole superbe pronunciate in quel momento mi fecero rabbrividire. Rabbrividii e feci gli scongiuri del caso; ma a peggiorare il mio stato d'animo, il fonografo attaccò La Campana di San Giusto.
Bisogna sapere che alla Porretta, dove col campo si chiudeva il corso accelerato di allievi ufficiali, eravamo afflitti dalla presenza di un gruppo di Giovani Esploratori, i quali, ahimè, disponevano di una fanfara, e la fanfara suonava ininterrottamente dall'alba al tramonto. E sapeva suonare solo una marcetta: Pirì pirì papa, pirì parapì papa ...La Campana di San Giusto.
Ci seguivano nelle marcie e nelle esercitazioni, erano accampati con noi, e sempre:
La Campana di San Giusto mi era divenuta una ossessione. Me la sentivo continuamente risuonare e ripetere in testa, e la risentivo ancora quando, neppure due mesi dopo della sfilata in parata, vennero Caporetto, la vergognosa sconfitta,  la ignominiosa prigionia.
Cosi che, benché anche io da ragazzo avessi tirato le mie brave sassate contro le finestre dell'Ambasciata d'Austria, e benché anche io agognassi alla liberazione di Trento e Trieste, La Campana di San Giusto rimase nella mia mente associata alla disfatta e alla prigionia, e da allora in poi la considerai una canzone foriera di disgrazia.
Fortunatamente, a distrarmi e a rallegrarmi lo spirito, il fonografo intonò una canzonetta napoletana.

Il dirigibile continuava ad andare in circolo a bassissima velocita e a bassa quota sulla zona del Polo. Il vento era forte e si rinunciò a tentare la discesa.
Behounek e Pontremoli procedevano alle loro osservazioni. Pontremoli annunciò di aver misurata la componente verticale del magnetismo terrestre.
Furono trasmessi messaggi al Papa, al Re, a Mussolini; e Nobile iniziò il lancio delle bandiere e dei simboli.
Lanciò la bandiera italiana, il gonfalone di sant'Ambrogio, la medaglia della Vergine del Fuoco di Forlì, la Croce del Papa. Io ne osservavo la caduta per vedere cosa sarebbe successo all'urto sui ghiacci, ma il dirigibile andava di traverso, e la persi quasi subito di vista.
La Croce prima di essere lanciata fu, per assecondare il desiderio espresso dalla signora Nobile, baciata da tutti; la baciarono anche Malmgren e Pontremoli, e i motoristi che vennero uno a uno in cabina.
Poi brindammo al Polo Nord bevendo una bottiglia di liquore d'uovo preparato dalla signora Nobile.
Bisognava pensare al ritorno.

Dirigendoci verso le Spitsbergen avremmo avuto vento contrario, e ciò repugnava a Nobile che temeva le possibili gravi conseguenze di una marcia prolungata contro vento. Pensò perciò che forse sarebbe stato preferibile andare avanti continuando verso le foci del Mackenzie e più oltre, oppure dirigerei ancora una volta verso la Terra del Nord. Ma Malmgren lo sconsigliò dicendogli che bisognava dimostrare di essere capaci di tornare alla
garantì che in poche ore il vento avrebbe girato e che l'avremmo avuto in favore.
Cosi alle 2:20 del 24 Maggio prendemmo la via del ritorno puntando sulle Spitsbergen. Eravamo rimasti sul Polo due ore: forse troppo.

Un esquimese compagno di Peary, meravigliato della facilità e della rapidità con la quale la spedizione in slitte che per prima raggiunse il Polo Nord potè tornare alla sua base a Capo Columbia, disse all'esploratore che certamente il Diavolo era occupato a bastonare la moglie se aveva permesso che tornassero cosi presto in salvo.
E il Diavolo Artico era ancora occupato a bastonare la moglie quando il Norge compì la memorabile traversata, e forse dormiva mentre noi ci dirigevamo sul Polo; ma all'alba del 24 Maggio 1928 era ben sveglio e in perfetta armonia con la sua signora, e da quel momento in poi non lasciò di interessarsi del nostro viaggio.

L'entusiasmo che ci aveva accompagnati nel volo di andata e che avevamo provato durante la sosta sul Polo, scomparve presto. Man mano che il volo procedeva, sul nostro animo andava calando un velo di preoccupazione e di tristezza.
Navigavamo a 1000 metri di quota. Sotto di noi si stendeva un mare monotono di nebbia. Seguivamo il 25° meridiano Est di Greenwich, che va a tagliare a due terzi circa, restando un terzo verso Est, la Terra di Nord-Est. Non so perché Nobile non avesse scelta una rotta più a Ovest: probabilmente per effettuare qualche puntata sulla zona ancora non vista da occhio umano che si estendeva alla nostra sinistra.

Navigando sopra la nebbia non era possibile rendersi conto della deriva che intuivamo forte. Perciò alle 10:20 scendemmo attraverso la nebbia, e a 300, 200 metri sotto di noi, rivedemmo il pack.
Tirava un forte vento di Sud-Ovest che ci trascinava a sinistra. Per qualche ora lo assecondammo poggiando a Est ed entrando nella zona inesplorata; poi ripigliammo la rotta.
Sono le 21:45 del 24 Maggio; navighiamo ormai da 41 ore e 17 minuti.
La visibilità migliora.
Raffiche di neve. Continuiamo a volare sotto la nebbia a 250 metri di quota.
Formazioni di ghiaccio.
Sulle punte del corrimano della cabina e sulle parti metalliche esposte al vento di corsa, il ghiaccio si forma e cresce a vista d'occhio: duro, bianco e compatto come porcellana. Il mulinello della radio si carica di ghiaccio che nella rotazione se ne stacca e viene proiettato contro le pareti della cabina. Dalle eliche dei motori partono pezzi di ghiaccio che colpiscono la gualdrappa della trave e le fiancate dell'involucro con la forza ed il rumore di armi da fuoco. L'aereo della radio che pende sotto il dirigibile si spezza per il peso del ghiaccio che vi si è formato sopra, e deve essere sostituito.
Ne ricuperiamo un tratto e lo fotografiamo: il cavetto di rame da tre millimetri si è trasformato in un candelotto di ghiaccio compatto di quattro centimetri di diametro.
Marciamo con vento contrario da 55 a 50 chilometri all'ora.
Il cambiamento favorevole previsto da Malmgren non si è verificato; anzi ora Malmgren dice che ci troviamo in una zona pericolosa, che la situazione può peggiorare da un momento all'altro, e sollecita a uscirne al più presto.
 Nobile da ordine di andare a tre motori, ma non avanziamo a più di 60  chilometri all'ora, e il consumo della benzina è proibitivo. A piena potenza, sotto l'azione del vento contrario, il dirigibile freme, oscilla, rulla e beccheggia come impazzito, ed è assai difficile mantenerlo in rotta e in quota.
Siamo al mattino del 25 Maggio.
Continua il vento contrario, continuiamo a marciare a tre motori. Non conosciamo la nostra posizione; l'equipaggio è stanco e avvilito.
Faccio un giro nella trave.
In vicinanza delle navicelle motrici il fracasso è assordante. Il dirigibile danza una danza sfrenata e bisogna reggersi ai travetti per non cadere o non essere sbattuti contro la gualdrappa. Arduino è preoccupatissimo:
- Dove andiamo a finire? Continuando a tre motori rimarremo presto senza benzina.
Io invece mi preoccupo soprattutto della resistenza delle strutture:
- Reggeranno?
Alle 7 del mattino non si vede ancora terra. Non abbiamo una idea di quale sia la nostra vera posizione.
Per mezz'ora puntiamo verso Ovest allo scopo di correggere i rilievi radiogoniometrici, ma andiamo esattamente contro vento, avanziamo pochissimo, e la correzione non è efficace.
Ripigliamo la rotta. Sono più di trenta ore che navighiamo con vento contrario, nebbia, neve, ghiaccio, freddo; e non sappiamo dove ci troviamo.
Sono le 9:25 del 25 Maggio.
Siamo in aria da 52 ore e 57 minuti.
Pontremoli e Lago dormono nella trave da alcune ore, Cecioni è al suo turno di riposo e dorme sul tetto della cabina, Arduino è nella trave, i tre motoristi sono al loro posto, gli altri membri dell'equipaggio sono nella cabina di comando. Io sto al timone di quota.
Il vento era forte e il dirigibile beccheggiava violentemente e per mantenerlo in linea di volo bisognava manovrare continuamente il timone.
Per correggere una violenta impennata dovetti dare tutto timone a scendere, ma quando andai per girare la ruota in senso contrario per rimetterlo in posizione neutra, la ruota resistette e non si mosse: il comando si era bloccato.
Feci forza per liberarlo, ma non molta: ricordavo l'esperienza di Ro= ma e avevo paura che la ruota mi si:;rompesse in mano.
Il comando restò bloccato; il dirigibile aveva la prua rivolta in basso. Diedi l'allarme e i motori furono immediatamente fermati.
Non correvamo nessun pericolo perché il dirigibile era molto leggero. Scese infatti per inerzia fino a ottanta metri dal pack, e poi prese a risalire.
Nel frattempo Zappi, di sua iniziativa e senza chiederne l'autorizzazione, aveva aperta la porta della cabina e gettate fuori quattro latte di benzina, circa settanta chili, che in quelle condizioni potevano fare ben poco come zavorra, mentre come benzina costituivano una perdita irreparabile.
Io ero rimasto al mio posto con le mani sulla ruota del timone. Si avvicinò Viglieri che, afferrata la ruota, la forzò violentemente. Io l'assecondai di malavoglia, e sentii che il comando si liberava con un colpo secco.
Il dirigibile intanto, a motori fermi, saliva.
Cecioni era stato svegliato e incaricato di calare a qualche metro al disotto del dirigibile la catena di palle. Poi Nobile lo incaricò di esaminare il comando del timone.
I comandi di direzione e di quota erano provvisti di un meccanismo di irreversibilità, il fixator, il quale col suo funzionamento alleggeriva di molto la fatica del timoniere. Tale apparecchio, in verità utile, aveva però i suoi inconvenienti perché era costituito da un meccanismo complicato, e di funzionamento non assolutamente sicuro; non tutti i nostri dirigibili ne erano provvisti. Io non l'avevo in grande simpatia, e avrei preferito qualche cosa di disegno più semplice e di funzionamento più garantito (per esempio un accoppiamento vite senza fine - corona elicoidale).
Già il grasso contenuto nel fixator del timone di direzione si era ghiacciato, e la manovra del timone era diventata tanto dura che era stato necessario toglierne il fixator (i comandi funzionavano anche senza). Era logico perciò supporre che anche l'incastramento del timone di quota fosse stato dovuto al congelamento del grasso del fixator.
Cecioni dopo aver calata la catena si mise al lavoro con la sua consueta abilità e rapidità, ma brontolando e imprecando come era suo costume.
Il dirigibile, sempre a motori fermi, continuava a salire; ed entrò nelle nubi. La pressione nell'involucro aumentava, e Nobile, aiutato da Viglieri e da altri, tirò gas per equilibrarla.
Mariano chiede che si approfitti dell'occasione per portarci sopra le nubi e prendere un'altezza di Sole. Nobile acconsente.
Continuiamo a salire. La nebbia nella quale ci troviamo si va facendo sempre più chiara: a 900 metri di quota ecco il Sole.
Zappi e Mariano eseguono le loro osservazioni.
Nel fixator non c'era ghiaccio. Il comando viene rimontato senza fixator.
Siamo a 1100 metri di quota, in pieno sole. Sotto di noi si estende un mare di nebbia. Lo osserviamo attentamente ma non vediamo emergere, come sarebbe da aspettarsi, le cime della Grande Svalbard o della Terra di Nord Est.
Io osservo i manometri, dai quali non mi sono allontanato. La pressione del gas sale, ma si mantiene sotto al valore per il quale le valvole si aprono automaticamente. Stiamo in ascolto: il silenzio è profondo. Non sentiamo il sibilo caratteristico che le valvole emetterebbero se iniziassero l'apertura automatica.
Alle 9:55 rimettiamo i motori in moto. Scendiamo. Attraversiamo lo strato di nuvole. Ripigliamo la marcia a 500 metri sul pack.
Cecioni resta al timone di quota; il dirigibile pare leggero.
Io sono irritato per l'accaduto perché non riesco a individuare con certezza la causa dell'inceppamento del timone. Forse si tratta di un semplice incastagnamento dovuto alla natura del meccanismo del fixator.
Decido di andarmi a riposare e monto sul tetto della cabina.
Sento freddo e indosso sul maglione finlandese la giacca della combinazione foderata di pelliccia. Cerco di dormire, ma il sonno non viene.
Ridiscendo in cabina e mi metto a destra di Ceeioni, fra i manometri del gas e i telegrafi dei motoristi. Si procede a due motori e la navigazione pare regolare.
Alle 10:50 Cecioni avverte:
 - Siamo pesanti !
II dirigibile è appoppato fortemente, ma cade. Nobile da l'ordine di mettere in moto e a tutta forza il terzo motore, e di portare a tutta forza gli altri due. Io trasmetto l'ordine.
L'appoppamento aumenta, ma il dirigibile, invece di salire, è dominato da una forza che lo frena e che lo tira in basso.
L'appoppamento aumenta esageratamente: raggiunge i 50° e forse li supera; e io ho la netta impressione che la forza che frena e abbatte il dirigibile aumenti con l'aumentare dell'appoppamento.
Nobile da ordine a Cecioni di mollare la catena e dice ad Alessandrini di salire sulla groppa: forse qualche valvola del gas è rimasta aperta.
In cabina l'ordine e la calma sono perfetti: solo si sentono le imprecazioni di Cecioni che non riesce a sciogliere il nodo della fune che tiene la catena di palle.

 Alla ruota del timone di quota, Cecioni è stato sostituito da Zappi.
Dal finestrino guardo il pack, vedo che si avvicina, ritengo l'urto inevitabile. Il mio istinto aviatorio si risveglia:
Non cadere col motore acceso! e chiedo a Nobile se posso far fermare i motori.
Lui forse sta pensando la stessa cosa, perché senza esitare mi risponde, anzi quasi mi grida:
- Ferma ! Ferma !
Do' coi telegrafi ai tre motoristi l'ordine di fermare, e lo ripeto fino a che guardando verso poppa non vedo le eliche ferme.

Vedo la poppa e gli impennaggi puntati sul ghiaccio, vedo il ghiaccio che si solleva e che ci investe di traverso.

Sento un immane scroscio come di un enorme fascio di canne infrante, e poi non vedo più niente: tutto è diventato buio. In quel .momento supremo penso a Marta, il suo nome mi sale dal cuore alle labbra, e la invoco.
Sento che cado di traverso, che rotolo di fianco, e percepisco sul viso il freddo bagnato della neve.
Balzo in piedi.

Ho gli occhiali sporchi di neve e di sangue, vi passo sopra la mano e vedo il dirigibile che va via di traverso. Lo vedo in aria per la prima e ultima volta. Ne pendono numerose corde, e sulla fiancata spicca la scritta: ITALIA.

Faccio meccanicamente qualche passo nella sua direzione per afferrare una corda, ma il dirigibile si allontana, si innalza, e si perde nello strato di nuvole.

Ho la spaventosa impressione di essere rimasto solo.

Sono le 10:33 del 25 Maggio.

 

Tutti i diritti riservati © Ascanio Trojani, Ugo Mursia Editore


Solo sul web : Il viaggio dell'ITALIA verso il Polo Nord

Edit 10 VI 2023
© Ascanio Trojani 2023